«Giubileo è cultura», fino al 23 giugno a San Marcello al Corso il «Cristo» di Dalì
«Il Cristo di Salvador Dalì ha conquistato il mondo. Per noi è una gioia poter pensare che tanti turisti, tanti romani potranno venire a contemplare questa opera perché la bellezza consente davvero di vivere meglio», ha sottolineato il Pro-prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione, S.E. Mons. Rino Fisichella, ieri all’inaugurazione della Mostra «Il Cristo di Dalì a Roma». Più di 2300 persone hanno assistito all’evento di apertura dell’esposizione nella chiesa di San Marcello al Corso, a Roma, tappa di grande rilievo per la rassegna «Il Giubileo è cultura», in preparazione all’Anno Santo.
Nella chiesa romana, dal 13 maggio al 23 giugno, sarà esposto il celebre «Cristo di San Giovanni della Croce», opera del pittore spagnolo, per la prima volta accanto al disegno-reliquia, inchiostro su carta, autografo di San Giovanni della Croce, a cui Dalì si ispirò per il suo capolavoro. «Le due opere sono unite volutamente, - spiega Mons. Fisichella - non solo per dare originalità all’evento, che diventa unico, ma soprattutto per far comprendere come la bellezza trovi la sua espressione più profonda là dove riesce a porre in contemplazione di Dio. Chi ha avuto un'esperienza mistica, un incontro particolare con Dio, si ritrova poi a essere sorgente di ispirazione per altra bellezza. Dove c’è bellezza, infatti, si vive bene, perché l’animo è ispirato ad andare oltre».
Il Giubileo, spiega il vescovo, in quanto evento spirituale «assume in sé anche le caratteristiche della cultura. Ecco perché, all’indomani della pubblicazione della Bolla d’Indizione dell’Anno Santo, dal titolo Spes non confundit, da parte di Papa Francesco, abbiamo voluto organizzare questo momento importante anche per la città di Roma. L’esperienza giubilare, dunque, diventa una “porta di speranza”, e quanti attraverseranno la porta d’ingresso di San Marcello, ci auguriamo che possano, contemplando il crocifisso, ritrovare veramente la Speranza di cui abbiamo bisogno in particolare in questo periodo».
Per la spiegazione artistica delle opere, poi, ha preso la parola il curatore della Mostra, don Alessio Geretti. «Dalì ha voluto trasmetterci la certezza che, mentre le vicende di questo mondo stravolgono le nostre vite, la croce di Cristo, nostra speranza, rimane solido punto di riferimento a cui poter sempre tornare». Nella parte in basso, sono visibili tre figure. La terza, quella più evanescente, «è il riassunto di noi tutti che con una cesta in spalla, con il pesce ottenuto dai pescatori, andiamo verso casa a nutrire qualcuno. Lo stesso accade quando possiamo contemplare un’opera: sperimentiamo di avere qualcosa da poter trasmettere agli altri».
A colpire per primo, però, è certamente il crocifisso. «Lo sguardo si alza, si ritrova immerso in tenebre fitte, che rappresentano in parte quelle tenebre nelle quali il Verbo che si è fatto carne per diventare poi lui luce del mondo. Ma è anche il buio del primo istante della Creazione, quando lo spirito di Dio aleggiava sulle acque e ancora la luce non esisteva». Il Cristo che si vede sospeso nell'oscurità «ci fa percepire un senso di spaesamento: senza dubbio perché fluttua nel vuoto in una prospettiva ardita e insolita, che non si può paragonare a nessuna altra celebre immagine di Cristo in croce». Gesù è inquadrato dall’alto, quasi che il pittore desideri mostrarlo e nasconderlo al tempo stesso. «Non è possibile nemmeno intravedere il volto del Redentore, capire se è vivo o è già morto. Quello che ci spiazza è che non ritroviamo su di Lui nessun segno di dolore fisico, né la corona di spine, né i chiodi. Sul cartiglio posto sopra la sua testa non c’è scritto niente, forse a suggerire che tutti noi abbiamo scritto in fondo su quel foglietto».
In più, osservando con attenzione, non può non colpire la prospettiva, «non solo ardita ma addirittura da considerare sbagliata». Sbagliata «perché nella stessa immagine coabitano due punti di fuga prospettica impossibili nella medesima visione. Perché il Cristo suppone una visione dallo zenit, mentre il paesaggio dall'azimut. Lui non è il primo che introduce due punti di vista incompatibili nello stesso quadro. Era quello che facevano da un po’ i maestri del cubismo, che non avevano inventato la scomposizione angolosa delle figure per complicare le immagini ma per ricordarci che la realtà è più complessa di quello che sembrerebbe a uno sguardo unico. Dalì prende questo metodo senza questa spigolosa frammentazione, facendo coabitare in un'armonia perfetta le due prospettive otticamente incompatibili».
L'effetto che ne risulta, continua il curatore, «è di un’armonia tale che non ne siamo infastiditi, come se Dalì ci stesse dicendo che nella prospettiva cristiana lo sguardo divino e umano possono trovare un modo per congiungersi serenamente. In effetti di sguardo divino si deve parlare, perché il Cristo è visto dall’alto dal Padre. Come se il Padre ci mostrasse suo Figlio come lo ha visto Lui, pendere nel buio di questo mondo per donargli quello squarcio di luce e salvezza. In questo Dalì è debitore del «Cristo» di San Giovanni della Croce. Nel 1948, infatti, l’artista spagnolo visita il Monasterio de la Incarnaciòn ad Avila. Proprio lì ebbe l’occasione di vedere il piccolissimo disegno - reliquia che abbiamo qui esposto a San Marcello, e che non è mai uscito dal monastero. Le due immagini sono state insieme soltanto nella mente di Dalì ma fisicamente non si erano mai incontrate fino a oggi. L’incontro con quella immagine colpì Dalì fino a ispirare il suo capolavoro. Come se, nel bozzetto del santo, nato da un suo rapimento mistico, Dalì avesse percepito che in Cristo crocifisso risiede la speranza per tutte le notti più oscure della vita e del mondo».
La Mostra «Il Cristo di Dalì a Roma» è visitabile tutti i giorni, fino al 23 giugno, dalle ore 8.00 alle ore 20.00, ad orario continuato e a ingresso gratuito, presso la chiesa di San Marcello al Corso, a Roma.